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Una befana senza calze. A proposito di Omsa

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In tempo di feste il popolo viola, forse appesantito da panettone e torrone, sembra non azzeccarne nemmeno una.

Prima la dichiarazione del comico (che ormai da diversi anni non fa nemmeno ridere) Grillo, inventore del viola politico, a proposito della necessità di comprendere chi attenta alla vita dei lavoratori di Equitalia (come se i dipendenti della società non fossero altro che mostri e non semplici madri o padri o giovani che hanno trovato in Equitalia un posto di lavoro).

Poi il tentativo di sensibilizzare la rete sugli imminenti licenziamenti del gruppo Omsa, cosa di per se’ buona come intenzione ma assurda come proposta operativa, attraverso la richiesta di boicottare gli acquisti delle calze del gruppo.

La logica economica che da sempre determina il mercato, infatti, dice che:

1.Più si vende, più si produce.
2.Più é spinto il livello di concorrenza in termini di prezzo, più forte é la necessità di razionalizzare i costi di produzione.

Alla luce di queste due verità fondamentali, emerge chiaro che:

Il nostro paese, dopo anni di mancate riforme del mercato del lavoro che portassero a vera flessibilità in uscita e in assenza di veri incentivi a non delocalizzare, non ha alcun appeal sul fronte imprenditoriale.
Tassazione elevata, impossibilità di licenziare, cause giudiziarie che impiegano almeno 5 anni prima di essere chiuse, assenza di una vera possibilità di concertazione con i sindacati (la cui unica politica in Italia é quella dello sciopero e mai mirante alla salvaguardia di posti di lavoro) sono solo quattro esempi di come l’impresa all’Italiana assomigli sempre più a una missione umanitaria più che a un vero e proprio esempio di produttività.

A questo punto é lecito domandarsi a cosa serva realmente una proposta di boicottaggio in questi termini se non ad aggravare ulteriormente la già delicata situazione del mercato del lavoro.
É opportuno sapere, infatti, che il gruppo Omsa, leader italiano e tra i principali player europei nella produzione di calze e collant, ha altri 4 stabilimenti produttivi nel nostro paese, oltre a quelli già localizzati da anni in Serbia e Stati Uniti.
Boicottare questo marchio (e tutti i brand relativi) non farà altro che mettere a repentaglio anche i lavoratori degli altri 4 stabilimenti italiani, a favore di un’accelerata delocalizzazione in altri paesi in cui il gruppo é già presente.

Con questo non intendo che i 329 licenziamenti di Faenza sono 329 offerte sacrificali in nome del sistema paese. Queste sono 329 famiglie che meritano la nostra comprensione e tutto il nostro supporto, soprattutto dovrebbero meritare l’attenzione di chi (pubblica amministrazione e sindacati) ha il compito e il dovere di lavorare per una opportuna ricollocazione lavorativa.
Ma allo stesso tempo non possono e non devono diventare i 329 testimoni di una campagna ipocrita e miope come quella che il popolo viola sta facendo rimbalzare da un social network all’altro, giusto per il gusto di farsi vedere attivi e attenti.

L’errore più grande, infatti, sarebbe ridurre questa triste vicenda, triste e terribile sia per l’impresa italiana sia per le famiglie di Faenza colpite dai licenziamenti, a una boutade, a una buffonata effimera e della stessa durata di un tweet.

Tratto da Linkiesta di oggi

Omsa chiude, la protesta delle donne sul web

Elisa Zanetti

Il noto gruppo che raccoglie al suo interno marchi come Filodoro, Golden Lady, Sisì e Philippe Matignon ha annunciato che trasferirà la propria produzione in Serbia, lasciando così senza lavoro le 239 operaie della fabbrica di Faenza. Dalla rete moltissimi messaggi di solidarietà e inviti a boicottare l’azienda.

Un volantino contro Omsa
3 gennaio 2012
Sarà una “befana senza calze” e non solo per la crisi che ha portato a un netto taglio dei consumi, ma soprattutto per la proposta lanciata dalla pagina facebook “A piedi nudi!”, che invita tutti i consumatori a boicottare i marchi Omsa, il noto gruppo produttore di calze, che a breve chiuderà lo stabilimento di Faenza, lasciando a casa 239 operaie. Lo scorso 27 dicembre 2011, infatti, le lavoratrici dell’azienda hanno ricevuto dalla proprietà un fax in cui si comunicava l’intenzione di procedere con la risoluzione dei rapporti di lavoro, al termine della cassa integrazione straordinaria, che scadrà il 14 marzo 2012. Il gruppo Omsa trasferirà la produzione in Serbia, dove può godere di condizioni più favorevoli, secondo una logica di risparmio dei costi d’impresa.

Immediate le reazioni alla diffusione della notizia dei licenziamenti: l’IdV, che da subito si era schierata a favore delle operaie dell’Omsa, chiede al governo di convocare immediatamente la trattativa, ponendo come condizione il ritiro dei licenziamenti, mentre i sindacati, in una nota congiunta Filctem-Cgil, Femca-Cisl e Uilta-Uil parlano di comportamento «inaccettabile e irrispettoso» da parte di Nerino Grassi, patron dell’azienda, che ha scelto ancora una volta «di sottrarsi al confronto e a ogni responsabilità, preoccupandosi esclusivamente di tagliare il cordone ombelicale con lavoratrici e lavoratori». Franco Grillini, presidente della Commissione Politiche Economiche della Regione Emilia-Romagna, parla invece di «provocazione» perché Omnsa, «nonostante fosse sana dal punto di vista industriale è stata trasferita in un paese dell’est».

Il dibattito accende anche la rete e su facebook e twitter si moltiplicano i commenti degli internauti. In tantissimi dichiarano che non acquisteranno più prodotti del gruppo: come ad esempio Eleonora85 che grida in un twitt: «Tu licenzi? Io non ti compro! Boicotta OMSA!» o ancora Barbara Campanelli che sulla pagina facebook del gruppo “A piedi nudi” dichiara la sua vicinanza e l’intenzione di non acquistare più i prodotti: «Vi sono vicina, io e le mie bambine siamo fedeli alla vostra causa, nn compreremo più i loro prodotti. Non mollate, facciamogliela pagare».

Alla scelta dell’azienda di delocalizzare la produzione Dino Amenduni risponde così: «Omsa: gli imprenditori possono delocalizzare, i clienti possono cambiare prodotti come risposta», proponendo quindi di premiare quelle aziende che scelgono di mantenere i propri stabilimenti in Italia, garantendo così l’occupazione nel nostro Paese. Benché ci sia chi proponga di realizzare dei volantini da distribuire davanti ai punti vendita del marchio, c’è chi invece crede che non acquistare più i prodotti dell’azienda non serva a nulla, come scrive Martina Sassoli: «Boicottare un marchio come Omsa non farà altro che raddoppiare il numero dei licenziamenti. Non è così che si aiutano i lavoratori. Svegliaaa!» o chi pensa che la colpa non sia degli imprenditori come Emanuele Bottini: «copione ormai noto, non si possono condannare imprenditori al fallimento, la colpa non è loro!».

C’è poi chi si domanda quanti imprenditori potranno davvero resistere lasciando la loro produzione in Italia, scrive Pier Luigi: «Quando Omsa produrrà all’estero abbasserà i prezzi? E i concorrenti restaranno in Italia perdendo altre quote di mercato?». E quanti consumatori potranno permettersi di non acquistare più i prodotti, twitta Andrea Girvasi: «in quanti possono permettersi di boicottare l’Omsa facendo acquisti “ideologici” senza guardare al prezzo di mercato?». Intanto l’evento facebook “Mai più Omsa”, creato il 31 gennaio, ha raggiunto in soli tre giorni oltre 25 000 iscritti e al di là di ogni dubbio, in rete, resta soprattutto la solidarietà alle donne che perderanno il lavoro e una amara nota d’ironia, scrive Quink: «Faenza, licenziate le 239 operaie OMSA. Erano troppi 50 denari».