Sei giorni fa era tutto uno sdegnarsi collettivo.
Chiunque, dal grande statista ( o sedicente tale) al più semplice uomo di strada (nell’accezione migliore del termine), condannava i gravi episodi accaduti a Roma come atti di violenza inaudita e inaccettabile per un paese civile.
Per due giorni, telegiornali e media in generale hanno dato ampio spazio alle vicende, riproponendo desolanti immagini della Capitale messa a ferro e fuoco da gruppi di “facinorosi estremisti” e garantendo ampio spazio alle dichiarazioni del mondo politico, unanimemente sdegnato.
Poi è arrivato il momento dei primi arresti: i 12 fermi, la cui convalida è arrivata ieri, avrebbero dovuto placare la sete di vendetta di quell’Italia indignata pronta a condannare, nel migliore dei casi, ai lavori forzati i responsabili dell’operazione “distruggiamo Roma”.
Seppure i lavori di indagine proseguano, sembra però che la fame di giustizia (che non sempre si accompagna alla sete di vendetta di cui sopra) sia già stata saziata.
Sarà che nelle ultime 24 ore altri grandi avvenimenti hanno scosso l’umanità intera e di conseguenza il nostro paese, la morte di Gheddafi in primis ma anche Ignazio Visco (da non confondere con Vincenzo Visco, l’ex Ministro tuttotasse) a capo di Bankitalia non lo sottovaluterei, ma di black bloc o di quei “facinorosi estremisti” si parla molto meno.
Anzi, non se ne parla quasi più. Se anche la poppante neoinquilina dell’Eliseo, Dalia Sarkozy, riesce ad accaparrarsi un minutaggio superiore nei tg e a occupare centimetri e centimetri di articoli sia cartacei che sul web, vuol dire che l’attenzione mediatica ha abbandonato del tutto l’argomento.
Basta.
Roba vecchia. Inutile parlarne ancora. Almeno fino al prossimo episodio.
E così le piazze deturpate, le macchine incendiate, le madonne calpestate finiscono nel dimenticatoio. E chi urlava “vergogna” settimana scorsa, oggi, probabilmente, sta già concentrando il proprio sentimento di schifo su qualcos’altro.
Magari proprio sulla morte di Gheddafi.
A distanza di nemmeno sette giorni, dunque, calma piatta.
Tranne, ovviamente, per tutti quelli che invece sono stati vittime “vere” degli scontri di sabato.
I proprietari dei negozi, delle automobili, i residenti di quelle strade teatro della devastazione.
Quelli no, non si sono stancati di urlare il proprio sdegno e il proprio sconforto.
O forse hanno smesso di farlo perché non c’è più nessuno che li ascolta.
Non c’è più nessuno che li affianca. Che li supporta. Che fa massa critica e che insieme a loro dovrebbe essere in prima linea per far sì che episodi del genere non si ripresentino in futuro.
Ma a ben vedere, lo dicevo qualche giorno fa su Twitter (ormai mia valvola di sfogo…), le vittime di sabato non sono solo i romani.
Le vittime sono tutti gli italiani che hanno assistito senza poter fare nulla allo sfracello di una città simbolo dell’italianità, della nostra cultura, della nostra tradizione.
Una città che, guarda caso, è la capitale d’Italia, simbolo quindi di tutta la nostra patria, intesa come stato ma soprattutto come nazione.
Volendo usare un eccesso, quando nel 2001 vennero abbattute le Twin Towers, tutti gli Stati Uniti, compattamente, si sentirono offesi e attaccati. Non solo New York.
Allo stesso modo, perché a soli sei giorni di distanza sembra che la vicenda sia solo un affaire romano, qualcosa che riguarda altri, non noi, non la nostra quotidianità, la nostra casa, il nostro lavoro?
Se c’è una vera vittima oggi non è solo Roma ma l’Italia intera, incapace di riconoscersi come tale perché ha una memoria fintamente corta.
Secondo una stima pubblicata oggi da Il Giornale, negli ultimi dieci anni il mondo dei Black Bloc, dei No Tav, No Global e degli ultimi arrivati Indignados è costato 300 milioni di euro al nostro paese.
Parlo di costo anche se dovrei parlare di spreco, perché questi sono costi inutili perché derivano da danni inutili. E stupidi.
Costi altissimi, sia in termini economici sia in termini di sicurezza e di immagine delle nostre città, e dunque dell’Italia intera.
Napoli, Genova, Milano, Roma, Torino, solo per citare alcuni esempi.
“Una cicatrice che si estende da Nord a Sud” scrivono Chiocci e Di Meo.
Una cicatrice che deriva da una ferita inferta a tutta Italia ma che ognuno deve curarsi a casa sua, purtroppo.
Eppure le cicatrici, queste oscene cicatrici, rimangono sulla pelle di ciascuno di noi, non solo dei milanesi, torinesi o genovesi, e anche se facciamo finta che non ci siano, queste restano.
Quanto dovremo essere deturpati prima di dire basta?
Prima di capire che questi non sono “facinorosi estremisti”, che non sono la generazione che combatte per preservare l’ambiente ( i no tav), o il piccolo commercio ( i no G8), o il diritto al futuro (gli Indignados Blackisti), ma veri criminali che seminano odio e terrore?
Quanto ci vorrà prima di far passare il messaggio che non basta processarne dodici su cento, duecento, cinquecento?
Quanto dovrà passare prima di far capire che non basta dichiarare il proprio sdegno nelle prime 24 ore al bar sotto casa così come in tv se poi si butta tutto nel dimenticatoio?
La sete di vendetta, ci insegnano, non è mai cosa buona.
Ma la fame di giustizia sì.
E prima di saziarla, dobbiamo sentirla come priorità.
Aspetto fiduciosa che l’Italia intera, e non solo Roma, senta questa fame.